CENTROCULTURA

Da sabato nello Spazio Piktart di Senigallia in mostra le opere del fotografo Domenico Taddioli

Da sabato nello Spazio Piktart di Senigallia in mostra le opere del fotografo Domenico Taddioli

SENIGALLIA – Sabato 6 novembre, alle ore 16, apre la mostra di Domenico Taddioli presso Spazio Piktart a Senigallia. In mostra 27 opere del fotografo osimano, riconosciuto a livello nazionale. Domenico Taddioli (1930-2018) è stato attivo durante una delle stagioni più vive per la fotografia marchigiana: la seconda metà del ‘900.

Allievo di Giuseppe Cavalli, poi sperimentatore appassionato del genere reportage sociale, appartiene a quegli autori affascinati dalla realtà e dalle sue innumerevoli possibilità di racconto.

Le “lontane realtà” lo sono nel tempo e nello spazio: sono quelle raccontate nel sud Italia, esotico e magico per la sua generazione, fotografate negli anni ’60. Sono visioni di feste, tradizioni e di un quotidiano che fatichiamo a credere sia il nostro passato recente.

LA MOSTRA

Nei suoi primi anni di attività Domenico Taddioli ha guardato con interesse all’insegnamento di Giuseppe Cavalli, suo maestro, che sosteneva tra l’altro un uso del mezzo fotografico libero da finalità documentarie. Tuttavia, successivamente, Taddioli ha saputo dar vita a un percorso personale che lo ha spinto verso il reportage e il racconto fotografico e che è l’oggetto di questa mostra.

Tra il 1965 e il 1957 Taddioli viaggia molto e fotografa il sud Italia: in particolare la Basilicata (1965, 1969), la Puglia (1962-1964), l’Abruzzo (1965, 1967) e L’Umbria (1965 e oltre) ma anche altre zone d’Italia e ovviamente le Marche. A sud resterà particolarmente attratto dal lavoro, dalle feste e dalle tradizioni (ai luoghi visitati si aggiunge la Sicilia nel 1994 e Carrara nel 1997).

Si tratta di reportage che nel tempo sono andati impreziosendosi perché testimonianze di un patrimonio storico e sociale tutto italiano. E’ questo ad esempio il caso di Castelluccio di Norcia, ripresa per la prima volta nel 1965, quando era ancora una meta sconosciuta ai fotografi. Nelle immagini vediamo un passato che non può tornare. L’usanza di raccontare la storia delle sue genti sui muri, i muri stessi, sono andati in gran parte perduti dopo il terribile terremoto del 2016 che ha quasi raso al suolo il paese.

Ma lo stesso si può dire per i costumi delle donne della Lucania, per le condizioni abitative in Puglia, per le relazioni interpersonali, per i modi di manifestare il proprio credo durante le feste religiose illustrate.

Oltre all’insegnamento delle attività di camera oscura, in queste opere notiamo come Taddioli, del maestro Cavalli, conservi la lezione sulla composizione e quella sul valore del bianco: uno spazio che non è assenza di toni bensì luogo prediletto del fotografo per misurarsi con la luce. A questo aggiunge un personale senso di sincera amorevolezza nei confronti della realtà e delle situazioni che sa trattare con rispetto: un “altro da sé” che racconta senza mai invadere.

Taddioli si inserisce con la sua opera nel contesto culturale regionale del dopoguerra che aveva due approcci fotografici vissuti come opposti: quello formalista-crociano portato avanti da Cavalli (“scuola” di Senigallia) e quello realista proposto da Luigi Crocenzi (“scuola” di Fermo). La sua posizione è sempre stata al di sopra di orientamenti rigidi. Egli ha affermato che la fotografia per lui è sempre stata una compagna di emozioni e ricordi e il senso con cui ha vissuto quest’arte è stata quella di rendere grazie alla bellezza che lo ha circondato in vita.

A Osimo nel 1964 egli fu fondatore di un’associazione fotografica di spessore, date le sue autorevoli adesioni, il “Senza testa”. Con lui furono fondatori Enzo Bevilacqua, Giuseppe Campanelli, Nicola Canalini e Alberto Pesaresi. Ma poi saranno molti gli autori noti che passeranno da questa realtà culturale in cui il dibattito teorico e pratico sarà vivo e produttivo. Tra questi, per fare qualche esempio, anche Corrado Vidau, Giovanni Pietro Nardi e con loro il fermano Eriberto Guidi.

La presenza di Guidi in particolare – autore fermano riconosciuto come primo discepolo di Luigi Crocenzi – è particolarmente significativa. Essa rappresenta un chiaro segno di interesse e condivisione delle reciproche visioni fotografiche e un’apertura al racconto fotografico di matrice crocenziana che Taddioli ha accolto nel suo lavoro. Per fare un esempio, da ricerche eseguite nei rispettivi archivi, sappiamo che le fotografie dei calanchi sembrano essere state eseguite assieme, Taddioli e Guidi, durante un viaggio. Quelli di Guidi sono visibili nella sua serie “L’orrida bellezza” (e oltre a Volterra sono stati scattati a Ripatransone, nelle Marche) mentre quelle di Taddioli restano soggetti singoli.

Due documenti speciali inoltre fungono da approfondimento alla mostra: il verso di due stampe dal titolo “La sciarpa bianca” ci dimostrano quanto effervescente fosse l’attività associativa vissuta da Taddioli e i suoi sodali e ci parla della febbrile stagione dei concorsi fotografici che si svolgeva in quegli anni. Altro documento importante è un docufilm/intervista visibile in sala dal titolo “Domenico Taddioli, Maestro della fotografia” a cura di Daniele Papa, (intervista a cura di Suor Barbara) realizzato nel 2015 presso lo studio del fotografo a Osimo.

LA BIOGRAFIA

Domenico Taddioli  (1930-2018) Inizia a fotografare nel 1956. Nel 1958 conosce Giuseppe Cavalli che lo introduce nel mondo della fotografia e gli fa conoscere i principali autori marchigiani attivi in quegli stessi anni. Cavalli,  peraltro suo maestro di camera oscura, gli trasmette l’amore per il bianco e nero a cui raramente Taddioli rinuncerà, prediligendo per tutto il suo percorso la stampa analogica realizzata personalmente.

Per il suo maestro Cavalli, Taddioli cura due mostre a Osimo, assieme a Enzo Bevilacqua: nel 1957 e nel 1961 al Palazzo Campana.

Dopo un inizio fatto di sperimentazioni e di una fotografia di stampo cavalliano, ormai superato per le nuove generazioni come era quella di Taddioli, inizia le sue sperimentazioni più autonome e libere, aderenti al suo più autentico modo di intendere l’immagine. Sono spesso scatti legate a una fotografia dal “soggetto neorealista” che in completa antitesi con la scuola di Cavalli vedeva nel documento di vita, nel racconto sociale e nell’aderenza alla realtà il suo compimento.

Nel 1964 sarà fondatore dell’associazione fotografica osimana “Senza testa” che deve il suo nome dalle dodici statue acefale poste nell’atrio del Palazzo Comunale della città. Assieme a lui sono soci fondatori Enzo Bevilacqua, Giuseppe Campanelli, Nicola Canalini e Alberto Pesaresi. Il sodalizio si distingue subito per il suo impulso al dibattito critico in una regione, le Marche, culturalmente e particolarmente viva in quei decenni.

Tra il 1965 e il 1957 viaggia molto e fotografa il sud Italia: in particolare la Basilicata (1965, 1969), la Puglia (1962 – 1964), l’Abruzzo (1965, 1967) e L’Umbria (ma anche altre zone d’Italia e ovviamente le Marche. A sud resterà sempre particolarmente attratto dal lavoro, dalle feste e dalle tradizioni (ai luoghi visitati si aggiunge la Sicilia nel 1994 e Carrara nel 1997); si tratta di reportage che nel tempo sono andati impreziosendosi perché testimonianze di un patrimonio storico e sociale tutto italiano. In questi reportage, completamente immerso nella realtà, Taddioli non dimentica mai l’importanza dell’estetica applicando la lezione cavalliana al racconto documentaristico e al genere del reportage.

Numerosi sono i concorsi a cui partecipa e i premi vinti negli anni. Tra questi, nel 1962 viene nominato Artista della Federazione Internazionale Arti Fotografiche – AFIAP.

Nel 1995 esce una sua monografia promossa dalla FIAF che nello stesso anno gli conferisce l’onorificenza di MFI – Maestro della fotografia Italiana. Sue opere sono conservate e sono state esposte, oltre che in Europa anche in Russia e negli Stati Uniti.

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